Storia e Tradizioni
Il pane nella tradizione maceratese

Il pane nella tradizione maceratese

Il pane odierno ha conservato in certi luoghi – pochi in verità – le caratteristiche del pane tradizionale alla cui panificazione originaria molto si avvicina, compresa la cottura nel tipico, ma ormai raro, forno a legna. Oggi è prodotto in forma industriale, ad eccezione dei casi citati, ma una volta la panificazione era un’attività che coinvolgeva tutte le famiglie sia in paese sia nelle campagne. Al pane è stato sempre rivolto un profondo rispetto sia perché ritenuto l’alimento di base, sia per il nesso con il sacramento dell’Eucarestia. Era ritenuto il dono che Dio, per la sua bontà, consegnava agli uomini. Per questo chiunque sprecava del pane, o, per gioco, lo riduceva in briciole, veniva accusato di disprezzare la Provvidenza divina. Era radicata e ben diffusa la tradizione che se qualcuno avesse sbriciolato un pezzo di pane, sarebbe stato in Purgatorio tanti anni quante fossero state le briciole prodotte. In quegli anni avrebbe dovuto subire la terribile pena di raccoglier con le palpebre tutte le molliche create in vita. Se un pezzo di pane cadeva inavvertitamente a terra, veniva raccolto, baciato, pulito alla meglio e mangiato oppure posto in un luogo in cui potesse essere utilizzato dagli animali, specialmente in campagna dove veniva sminuzzato per le galline.
Inoltre non si doveva mai appoggiare sulla tavola il pane capovolto, cioè con la parte convessa in basso: si sosteneva che così facendo si facesse soffrire un’anima in purgatorio, o si facesse un gesto di spregio nei confronti di Gesù, o si facesse cadere dal trono la Madonna.

La cura per il pane fece nascere anche una delicata leggenda – che costituiva anche un insegnamento – diffusa nella zona: la Madonna, durante la fuga in Egitto, si fermò, nonostante l’urgenza di mettere in salvo il Bambino, per raccogliere una mollica di pane vista per caso lungo la strada. La sacralità del pane – ancora presente nella tradizione fino ai giorni nostri – si manifestava anche nella confezione di piccoli pani il cui uso era legato al culto di un santo, in particolare a sant’Antonio abate, quale protettore degli animali, a s. Biagio, a s. Sebastiano. Sono da ricordare, in questo contesto, i “panini” che ancora si distribuiscono nel santuario di s. Nicola a Tolentino, del diametro di circa due centimetri. L’ingestione di queste “pagnottelle”, come vengono chiamate in quella città, preserva dalle malattie e la loro conservazione scongiura pericoli e calamità.

Portato a macinare il grano al mulino, il giorno della prima della preparazione si stacciava la farina per separarla dalla crusca con lu setàcciu. In genere si faceva tanto pane quanto ne bastava per una settimana ad eccezione del Natale, periodo in cui il pane doveva bastare fino all’Epifania perché, altrimenti, tutti i polli avrebbero avuto vita breve. Dunque, la sera prima la massaia impastava la farina con il lievito e, con il coltello, tracciava sull’impasto una croce e ripeteva il gesto per tre volte con la mano destra in una sorta di solenne rito. Successivamente lo metteva in un recipiente di coccio, la terìna, che veniva poi deposta nella màttera, la madia. Se era inverno, si poneva nella madia uno scallaléttu, uno scaldino per permettere alla pasta di lievitare. Il lievito, un frammento di pasta sottratto alla precedente panificazione, non doveva mai mancare nella casa perché aveva il potere di far crescere i bambini e di proteggerli dalle forze del male, soprattutto dalle streghe. Anzi, a questo scopo le mamme facevano indossare ai figli una borsetta di stoffa che conteneva lievito e sale. Inoltre se la famiglia era costretta a farsi prestare il lievito da una vicina o se la stessa prestava una pagnotta di pane, bisognava far mettere un po’ di sale nella tasca di chi aveva avuto materialmente il prestito per proteggere i bambini della sua famiglia dal malocchio. Anche la madia possedeva delle virtù nei confronti dei bambini: se uno non cresceva fisicamente in rapporto all’età, lo si faceva entrare nella madia dove stava qualche minuto mentre si recitava: Se pòzza levetà’ / comme la massa de lo pa’.
E se il piccolo soffriva di emicranie, di insonnia o di altri disturbi, gli giovava restare nella madia, dopo che era stato fatto il pane, per tutto il tempo che si impiegava a recitare le laude, le litanie.

Appena messa a lievitare la pasta, in alcuni paesi la massaia andava a comannà’ o a segnà’ dal fornaio, cioè informava quest’ultimo che si sarebbe fatto il pane in modo che ne potesse prendere nota e sapesse se si desiderava cuocerlo in una delle quattro ’nfornate. Siccome la prima infornata avveniva alle tre di notte – le altre successivamente – il fornaio,verso l’una, faceva il giro delle poste, cioè delle donne che si erano prenotate per il primo turno e le avvertiva dalla strada chiamandole ad alta voce, in genere con il soprannome che ognuno aveva, in maniera che nessuna perdesse il turno. A casa si preparava la taóla, la tavola dove sarebbero state allineate le file di pane, ricoperta dalla tovàja de lo pa’.
Nella madia si lavorava faticosamente la pasta lievitata e si formavano poi le singole pagnotte che venivano unite di tre in tre dando luogo alla “fila”. Un lato della tovaglia si rovesciava sopra il pane in modo che la pasta non si freddasse e continuasse il processo di lievitazione. Prima di portare il pane in forno, ogni massaia lo marcava, cioè lo contrassegnava per impedire che avvenissero contestazioni sulla proprietà. La stessa massaia portava al forno la taóla de lo pa’ tenendola in equilibrio sulla testa dove appoggiava sul cercine, lo strofinaccio (lu sparò), che formava un cerchio a mo’ di cuscinetto. Terminata la cottura, la stessa massaia provvedeva al ritiro del pane.

Il pane veniva conservato nella parte inferiore della madia accessibile tramite due sportelli, oppure sulla stessa taóla de lo pa’ appoggiata, in alto, a due mensole. In tempi più antichi veniva riposto in una sorta di dispensa pensile detta arca o archétta, – rintracciabile in inventari di arredi di case nobiliari – i cui sportelli avevano fessure per la circolazione dell’aria o erano chiusi da reti metalliche. Evidente l’analogia con la biblica “Arca dell’Allenza”, ambedue contenenti due emanazioni della divinità seppur di diversa natura.
Spesso con una piccola quantità di impasto si facevano le pingiarèlle, cioè pasta tagliata a pezzettini e condita con lardo che diveniva la portata principale del pasto di mezzogiorno.
Per i bambini il momento più atteso delle settimanali operazioni di panificazione era la preparazione delle cresciòle: fatte, appunto, con la pasta del pane resa sottile e di forma circolare, venivano fritte in padella con un po’ di strutto e cosparse poi di zucchero.

Tratto da “Dizionarietto delle Tradizioni e del Mangiare” del sito della Comunità Montana dei Monti Azzurri.

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