Storia e Tradizioni
Le fave dei morti

Le fave dei morti

Nel giorno dei Morti è diffusa abitudine trovare, oggi nelle pasticcerie, nei tempi passati in qualche casa, dei dolci di forma pressoché circolare, schiacciati, di quattro o cinque centimetri di diametro composti di pasta di mandorle e che prendono il nome di “fave dei morti”. Nel resoconto dell’inchiesta ufficiale condotta nel 1811 dal Governo del Regno Italico sulle tradizioni popolari delle Marche, così si scrive relativamente al Dipartimento del Musone che comprendeva la provincia di Macerata:
“[…] Dopo il funerale, ai poveri che lo hanno accompagnato [il defunto] si distribuisce del pane che fu fatto dai vicini, ed i parenti si assidono alla merenda. È notabile che in questa merenda vi debba essere d’usanza le fave. Questo rito o mistero pitagorico è indubitabile, discende dai Gentili…”.

Ben scrive dunque l’estensore dell’inchiesta perché, effettivamente, i pitagorici – i componenti, cioè, di quella comunità di natura etico-religiosa che prende il nome dal filosofo Pitagora (sec. VI a.C.) – provavano una profonda repulsione nei confronti delle fave per una serie di motivi tra i quali emergeva il fatto che la fava, avendo uno stelo privo di nodi, costituiva un mezzo di comunicazione diretto fra l’Ade – ovvero il mondo dei morti che aveva sede nelle profondità della terra – ed il mondo dei vivi, in superficie.
Inoltre, secondo un’antichissima tradizione, le fave potevano trasferire le anime dei morti negli esseri viventi: per questo motivo – per la loro facoltà di costituire, cioè, il tramite tra i defunti ed i vivi – esse erano presenti nelle cerimonie funebri in Grecia, in Egitto, a Roma e perfino in India ed in Perù. A Roma erano considerate anche il cibo preferito dai morti; pertanto si gettavano nelle tombe delle fave che avrebbero dovuto dare, a causa della loro componente “sanguigna”, energia ai defunti. In questo modo le “fave dei morti” costituivano una sorta di inconsapevole comunione tra vivi e defunti e quasi uno scambio materiale tra mondo terreno e regno dei morti; erano, insomma, come alcuni sostengono, una partecipazione allegorica come l’agnello ebraico e cristiano nel giorno di Pasqua.

L’uso delle fave attestato dall’Inchiesta napoleonica, dunque, conferma come nel Maceratese fossero presenti persistenze di credenze e di riti propri di antiche culture, di cui, però, si è perso definitivamente il significato.
Il proverbio La fava pe’ li Mórti ricordava che la fava doveva essere seminata il 2 novembre se il tempo era bello. In caso contrario bisognava rimandare la semina al giorno 7 o al 17 o al 27 dello stesso mese perché ogni stelo di fava ha di solito sette baccelli: risultava quindi una sorta di provvedimento contro la iettatura affinché la semina producesse fave ricche. Tuttavia questa credenza può derivare da un nesso più generico, più o meno consapevole, con il 7, uno dei numeri magici per eccellenza.

Nell’antica Grecia si vietava di mangiare le fave prima delle cerimonie oracolari: si credeva che non si potesse scorgere il futuro in seguito alla loro ingestione perché offuscavano la mente e limitavano le capacità divinatorie. Molti, da Cicerone a Plinio, al noto medico Mattioli vissuto nel sec. XVI, erano invece convinti che le fave, essendo poco digeribili, coinvolgessero i sensi nel torpore della digestione e provocassero false visioni. Tali convinzioni furono seguite per lungo tempo tanto che la fava veniva coltivata solamente per concimare il terreno mediante quella tecnica chiamata “sovescio” che consisteva nel voltare con l’aratro le zolle su cui erano cresciute le fave per seppellirle nel terreno.

Tuttavia nel Maceratese le fave, sul modello di antiche consuetudini di utilizzo per trarre auspici seguite nella tradizione romana, venivano usate appunto per conoscere il futuro: nella notte del 31 dicembre le ragazze in età da marito nascondevano sotto il cuscino tre fave, una con la buccia, la seconda senza, la terza sbucciata per metà. Al risveglio, ne prendevano una a caso: la prima indicava il matrimonio con un uomo facoltoso, la seconda con un uomo povero, la terza con un uomo di condizioni accettabili.
Nella Roma antica, inoltre, le fave erano considerate un cibo molto nutriente anche se poco digeribile. Nel calendario romano esse appaiono frequentemente in riti propiziatori e, come si è visto, anche in riti funebri. In onore degli dei si offriva una farinata di fave che, se mangiata il 1° giugno, doveva liberare da dolori addominali. Le fave inoltre erano il cibo consacrato ad una misteriosa dea, amata dal dio Giano, che rappresentava la Grande Madre, colei che generava e nutriva gli uomini. Questa tradizione si è tramandata nel Maceratese ma anche in buona parte dell’Italia centrale e si manifesta attraverso l’usanza di mangiare la fava nel suo periodo di maturazione insieme con il formaggio pecorino che è manifestazione, appunto, della Magna Mater in quanto deriva dal latte, alimento primordiale del genere umano.

Le fave venivano usate anche per le votazioni in riunioni pubbli-che o private.
In quasi tutti i paesi del Maceratese, dal medioevo fino all’Ottocento, al termine della discussione di una proposta in quella riunione che poi prenderà il nome di Consiglio comunale, veniva segretamente lasciata cadere da ciascun consigliere una fava bianca, se era d’accordo; nera, se voleva esprimere contrarietà, in una speciale scatola di legno, chiamata “bussolo”, fornita di due fori per l’introduzione delle mani che venivano inserite contemporaneamente.

Tratto da “Dizionarietto delle Tradizioni e del Mangiare” del sito della Comunità Montana dei Monti Azzurri.

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